
La musica al passo con la storia
La musica afro-americana, comunemente definita “jazz” nasce tra fine ‘800 ed inizi ‘900, ma il suo punto di partenza può essere ricondotto probabilmente al lontano 1442. In quell’anno, infatti, il navigatore portoghese Antam Gonsalvez portò a Lisbona dieci africani per “salvare le loro anime”. Il problema fu però che i malcapitati furono invece utilizzati come schiavi. Il traffico fu ripreso cinquant’anni dopo da Cristoforo Colombo, che spedì cinquecento indiani dall’America centrale in Spagna, proponendo di venderli nei mercati di Siviglia. Il commercio divenne floridissimo, favorito da navigatori, ammiragli, pirati e governanti. La regina Elisabetta I, il suo rivale Filippo II, Carlo V, Carlo II ed il Sacro Romano Impero approfittarono di questo mezzo per accrescere le loro ricchezze. Dopo che per secoli i vascelli di tutta Europa avevano trasportato carichi stipati di neri africani (uomini, donne e bambini) per venderli, tra il 1802 e il 1820, praticamente tutti i paesi europei e gli Stati Uniti misero finalmente fuori legge il traffico di esseri umani. Purtroppo, però, il commercio legale fu sostituito da quello clandestino, che continuò almeno per tutto il sec. XIX.
Queste considerazioni storiche aiutano a comprendere come la cultura di origine africana, pur in condizioni drammatiche, ebbe modo di radicarsi nei secoli in tutte le Americhe, innestandosi nella formazione culturale di tipo europeo dominante in quei luoghi.
Nelle colonie cattoliche (francesi, spagnole, portoghesi) tali retaggi africani, tollerati, sopravvissero quasi intatti.
Le colonie inglesi protestanti (poi divenute Stati Uniti d’America) furono più repressive. Negli anni della schiavitù (1619-1865), durante le ore di lavoro gli schiavi cominciarono a cantare melodie africane, per alleggerire la fatica, utilizzando recipienti di latta per simulare gli strumenti a percussione. Nacquero così i worksong, canti composti da incitamenti e grida. Spesso gli schiavi venivano addirittura obbligati dai loro padroni a cantare durante il lavoro, perché non pensassero alla loro condizione e non organizzassero piani di fuga o di ribellione.
Solo verso il 1830 i bianchi scoprirono la musica nera. Venne di moda il minstrel show, ambiguo spettacolo in cui bianchi truccati da neri snocciolavano in modo grottesco scenette, canzoni e balli: un primo, lieve influsso nero si insinuava così nella musica bianca. Celebri divennero le canzoni “negre” di Stephen Collins Foster. L’unico compositore colto a ispirarsi ai neri fu Louis M. Gottschalk, le cui pagine contengono vividi preannunci del jazz.
Gli unici che trattavano con un pò di umanità i neri erano i pastori protestanti che cercavano di convertirli alla religione cristiana. È da qui che nascono altri tipi di canti, i canti religiosi o meglio conosciuti con il nome di “gospel song” (da God-Dio e Spell-Nome/Parola, quindi Parola di Dio) e gli “spirituals”. I neri prendevano spunto dai versi della Bibbia per i loro canti e spesso capitava che vi aggiungevano motivi improvvisati e parole dialettali.
Nella seconda metà dell’ottocento, prende forma un importante espressione musicale nera: il blues. Si differenzia dallo spiritual perché nel primo c’è solo un cantante che spesso ripete le parole più volte, come per esprimere il suo stato d’animo, mentre nel secondo cantano più voci e si parla di un intero popolo che si aggrappa alla religione per cercare un motivo per sperare in un domani migliore. Le tematiche del blues sono: la difficoltà della vita, l’amore spezzato ed i ricordi. Il termine blues deriva da un’espressione popolare che indica un vago sentimento di malinconia, molto pessimistico e non supportato da una speranza di riscatto (questo va in contrasto con la concezione religiosa dello spiritual e del gospel, nella quale invece si spera in una vita migliore). Il colore blu potrebbe essere stato associato a una sensazione di cupezza, da cui l’espressione “to be blue”, sentirsi tristi e malinconici.
La storia del jazz inizia quando alcuni uomini neri, sfruttando strumenti che i bianchi non usavano più, come pianoforti scordati e trombe della guerra civile, iniziavano a suonare e spesso ad improvvisare strane melodie. Il suo centro di sviluppo fu New Orleans in Louisiana, alla foce del Mississipi. Dopo l’abolizione della schiavitù (1865) molti neri andarono nella cittadina per trovare lavoro; le loro condizioni civili erano migliorate e veniva loro permesso di ritrovarsi in magazzini abbandonati per fare musica.
Il termine jazz potrebbe derivare dal nome di un musicista nero, Jazzbo, protagonista delle prime vicende di questa musica; per qualcuno invece proviene dal francese “jaser”: ciarlare, chiacchierare e per altri è tratto dall’espressione generale di New Orleans “jazz them boy!”: coraggio ragazzi!
L’evoluzione del genere ed i suoi protagonisti
Dopo l’emancipazione (1865) la musica nera esplose: gli artisti neri irruppero nel minstrel show dandogli nuova linfa; dilagarono corali nere in trascrizioni colte di spirituals, compositori e concertisti neri (James Postlewaite, Blind Tom, Blind Boone, John Douglass). Prese vita una nuova forma, promettente fin dall’inizio, il blues. Ma la reazione razzista ricacciò tutti i neri nel ghetto: non liberi artisti, ma giullari dell’uomo bianco. La loro musica poté così circolare solo in bettole, bordelli, o in ambiti “minori”. Verso il 1895 la fusione tra musica nera colta e popolare generò a Saint-Louis il ragtime.
A New Orleans, un ulteriore incrocio produsse il jazz, che in origine era ragtime per banda con abbellimenti improvvisati. E’ quindi New Orleans ad essere la patria indiscussa del jazz. Non per niente la città ha uno dei soprannomi più belli, The Big Easy, che, azzardando una traduzione, può suonare in italiano proprio come “la città facile” o “la grande rilassata”, al contrario delle metropoli del Nord, attive fino alla frenesia, ma spesso chiuse. New Orleans nei primi anni del 1900 aveva già consacrato diversi “King of jazz”: gente come il leggendario Charles Buddy Bolden, Bunk Johnson e, soprattutto, il trombettista Joseph “King” Oliver (è lui che scoprì e lanciò Armstrong). Tuttavia il primo disco di jazz (1917) viene inciso per caso da un quintetto di bianchi, l’Original Dixieland Jazz Band. Dal 1923 la discografia jazz si fa più ricca e ci mostra l’espansione del jazz a Chicago, New York, Kansas City; mentre New Orleans, abbandonata dai suoi eroi, si impoverisce. E’ questo il periodo classico del jazz. Con Louis Armstrong (trombettista, i cui assolo arditi e il canto rauco ne fecero l’idolo del pubblico nero e dei musicisti) e Sidney Bechet il jazz di New Orleans tocca il culmine e muore, trasformandosi in uno stile nuovo, più solistico e aggressivo. La Crisi del 1929 spazza via tutto; ma il jazz sopravvive, quasi di nascosto: durante la Depressione (1930-34) emerge Duke Ellington, il più grande compositore jazz.
La ripresa economica apre le porte alla rinascita del jazz, ora chiamato swing (decennio 1935-1945). Sull’onda del successo del bianco Benny Goodman il jazz conquista platee mondiali, in una forma orchestrabile ballabile.
Ridotto infine a meccanico ingranaggio di danza, lo swing viene seppellito dal bebop, uno stile decisamente nero, aspro, ribelle e tumultuoso, creato da grandi solisti come Charlie Parker (sassofono), Dizzie Gillespie (tromba), Bud Powell (pianoforte) e Thelonious Monk (pianoforte). Il bebop, stile capriccioso, inorecchiabile, di enorme difficoltà esecutiva, basato su ritmi intricati e melodie tortuose, si connotò subito come una musica ribelle, protestataria, intesa da pochi iniziati.
Con il bebop, il jazz diventa musica di puro ascolto e perde molto del suo pubblico, che preferisce cantanti melodici (Frank Sinatra) o il rhythm and blues (genere di musica afroamericana popolare, cittadina, dal ritmo marcato e ballabile, cantata con inflessioni blues).
In questi anni intensi, dal bebop si distaccano varianti più bianche e intellettuali; l’interesse del pubblico si riaccende nel 1952 grazie al bianco Gerry Mulligan (sassofono), la cui musica moderna e originale, entra in tutte le case. Tuttavia, dal 1955 la voga del rock and roll fa del jazz la passione privata di un’élite di cultori borghesi.
Il bebop si rinnova nei preziosi capolavori di John Lewis, Miles Davis e Gil Evans, approdando talora a espliciti incroci con la musica europea moderna. Intanto cresce il risentimento razziale, che dal 1956 sfocia in marce, sit-in e scontri per ottenere l’uguaglianza dei diritti. I neri si fanno più decisi, orgogliosi e consapevoli delle proprie radici culturali ed il jazz diventa lo strumento per esprimere la loro battaglia. L’ascoltatore abituato all’armonia europea resta perplesso, e il jazz vede svanire il suo pubblico, “rubato” più facile rock. Dopo il 1960 lo scontro razziale si infiamma, e con esso la musica: ben presto al free jazz si avvicinano anche Taylor, Dolphy e, da ultimo, Coltrane, che diviene leader carismatico della nuova generazione, quella dei furiosi Archie Shepp e Albert Ayler.
Ma in breve l’incendio si spegne: muore Coltrane (1967), esplode la contestazione studentesca e il rock vive la sua stagione d’oro, facendosi interprete dell’ansia di ribellione dei giovani. Nel 1969 il jazz sembra di colpo un fossile.
Miles Davis è il primo tra i grandi ad accettare il fatto, e indica la via del jazz-rock, unendo l’arte improvvisativa e la sapienza armonica del jazz con i colori degli strumenti elettrici. Nel gruppo elettrico di Davis ci sono giovani musicisti (Keith Jarrett, Chick Corea, Dave Holland, Jack DeJohnette, Steve Grossman) che costituiscono alcune delle stelle del jazz di oggi.
Dal 1972 il bebop e il jazz modale diventano sempre più familiari alla massa, spesso arrivata al jazz dal rock. Si diffondono i grandi festival, le scuole di jazz, i film sugli eroi del jazz.
Oggi il jazz è un linguaggio internazionale, aperto a molte influenze e carico di potenzialità, ma anche esposto ai rischi soffocanti di una tradizione divenuta storia. Una serie di musicisti è ancora in piena attività e si muove lungo coordinate consolidate e tuttora vitali: è il caso del pianista Keith Jarrett, uno dei più eccezionali interpreti jazz della scena musicale contemporanea.
Il jazz è lasciare che la luce brilli, non cercare di accrescerla – lasciarla essere. (Keith Jarrett)
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